Intervista a Karl Lagerfeld​

È il lavoro di Karl Lagerfeld: nella moda, ovviamente. E nella fotografia, come racconta un nuovo volume. Occasione per parlare di futuro (il passato lo annoia) e di certi, celeberrimi colleghi d’obiettivo. Come Newton, che un giorno gli disse…

«Dovevamo fare un press kit con le immagini della collezione e purtroppo nessuna proposta era soddisfacente. Così ho pensato che, forse, la persona più adatta a eseguire la mia richiesta ero proprio io. Era il 1987. Detto, fatto, piaciuto, sono passato allo step successivo, scattare anche la campagna pubblicitaria». Nasce così “Chanel. Le campagne di Karl Lagerfeld” (L’Ippocampo Edizioni), un’antologia di tutti i mondi immaginati dallo stilista tedesco dal giorno del suo arrivo alla maison, 31 anni fa. Un universo fantasmatico, che lui crea d’un soffio, senza mai guardare indietro: «A la recherche du temps perdu, on perd son temps», ammonisce, «se resti stravaccato sul letto sfatto del tuo passato, sei finito». Con Vogue Italia parla dei decenni di idee raccolte nel libro (ma solo un po’, avverte, «perché detesto analizzare le emozioni!»), ed evoca i suoi mondi, la moda e la fotografia.

 

 

Mi fa pensare al personaggio di Blade Runner, quando dice «io ne ho viste cose che voi umani…». Correzione: che ho intravisto! Sono miope, vedo solo ciò che voglio vedere. E lavoro alla cieca, quando decido di scattare una campagna non so cosa farò e come sarà: dipende dalla modella, dalla collezione, dal luogo… sono i pezzi di un puzzle che non voglio analizzare perché cambiano sempre. Né voglio definirmi attraverso un genere che ripeto all’infinito, come certi fotografi che non cito: il mio stile è quello del momento in cui scatto la foto.

Trentuno anni di campagne pubblicitarie: cos’è cambiato?
Tutto: le ragazze, la moda, il costume. Ma io non amo spiegare, lavoro d’istinto. Questo libro, lo sto scoprendo con lei. Non guardo mai le cose che ho fatto.

E in fatto di moda, cosa c’è di nuovo oggi?
La moda è sempre un eterno ritorno… A cambiare sono le donne, e meno male, se no non ci sarebbe la moda!

 

Ci spieghi.
È il vestito che si adatta allo stile di una donna, e ogni epoca ha le sue tipologie di donne, ma questo possiamo dirlo solo con il senno di poi. Io immagino la versione moderna della donna Chanel, poi, però faccio tante altre cose, perché altrimenti mi isolo dal mondo.
Insisto: non trova noioso rivedere le stesse silhouette ogni 15 anni?
Ah! Ma io non vedo niente! Ammetto però che son stufo degli anni 80: infatti quando me ne parlano dico sempre che non ero ancora nato.

Quali sono i designer da tenere d’occhio?
Marine Serre, Jacquemus. E mi piace anche Virgil Abloh: ieri mi ha scritto una lettera per ringraziarmi di aver parlato bene di lui, lo conosco da tempo perché gli facevamo delle giacche Chanel, e nella lettera mi dice che ha visto Pharrell con un maglione, e chiede se può avere anche lui lo stesso… Quant’è carino!

Lei gira anche molti film: è facile passare dall’immagine fissa a quella in movimento?
Sì, perché una foto di moda io la penso come un film still, nelle mie immagini c’è sempre un tocco cinematografico, ho così tanti riferimenti in mente che non ho neanche bisogno di cercare di ricordarmi cosa mi abbia ispirato, è tutto qui: sono un Google ambulante… (risata, ndr.). Nei miei film faccio tutto, anche i dialoghi. Adesso ne giro uno con Penélope (Cruz, ndr.), ho già tutta la sceneggiatura in mente. La cosa buffa è che Penélope pensa di avere troppo accento e allora mi ha chiesto di girare un film muto. Ecco, sarà un omaggio agli anni 20 e a Coco Chanel, una vera ammaliatrice. Penélope è perfetta: è la regina delle ammaliatrici.

Perché Penélope?
La conosco da 15 anni e le sono molto legato. Sono un tipo fedele, mi piace ritrovare le persone che amo per lavorare insieme. Poi, non ho assolutamente il senso della gerarchia, ho bisogno di tutti perché so fare solo due cose nella vita: disegnare e parlare. Per il resto… help!

Le capita mai di dubitare?
Forse dovrei. Ma no, mai! Il dubbio ci sta solo all’inizio, quando rifletto su un’idea, ma appena inizio a eseguirla non c’è più spazio per i tentennamenti. Non solo per me stesso, ma per il mio team: se cominci a dubitare, tutti quelli che dipendono da te annaspano. La moda deve essere leggera, più improvvisata, più air du temps, meno concettualizzata!

Quali fotografi non si stanca mai di guardare?
Tantissimi! Penn, Avedon, Newton, Bourdin, Steichen, Stieglitz, Casebere, Louise Dahl-Wolfe… Tra i contemporanei ammiro Meisel, lui cambia di continuo, non si ferma mai, sono molto triste che rifiuti di fare dei libri. Ho avuto grandi rapporti di amicizia con alcuni di loro. Mia madre era molto affezionata a Guy Bourdin, e gli prestava spesso il suo castello per fare delle foto, finché un giorno non ha appiccato il fuoco a una stanza… Così poi è venuto da me. Bourdin ma anche Newton, li amavo. Erano altri tempi, quando le foto si ritoccavano a mano, Bourdin stava un giorno intero su un’immagine, Newton non aveva l’assistente, girava da solo con una vecchia macchina fotografica e un sacchetto di plastica per i rullini. Mi fa pensare a un’altra fotografa con cui ho una grande amicizia, Annie Leibovitz, amo il suo lavoro e lei come persona, siamo spesso in disaccordo: adoro litigare con lei! Proprio pochi giorni fa doveva farmi un ritratto commissionato da Anna (Wintour, ndr.) a casa mia, nel mio studio, dove entrano solo gli amici intimi. Le ho detto Annie, ok, ma vieni da sola, senza assistente, come facevamo in passato, rullini e luci fai tutto da te. L’idea non l’ha entusiasmata. Ma è stato divertente.
Oggi basta un iPhone e sono tutti fotografi.
Ma la gente scatta senza veramente guardare. Tutto sta nell’inquadratura, io non ritocco le foto, ma presto

Vogue Italia, settembre 2018, n.817, pag.510

L'articolo Intervista a Karl Lagerfeld​ sembra essere il primo su Vogue.it.



from Vogue.it https://ift.tt/2NFqkNp

Comments