Dove danzano gli sciamani

E anche questa volta non c’è stato bisogno di aprire l’ombrello. Il rituale dello sciamano brasiliano ingaggiato da Louis Vuitton per scongiurare, lo scorso giugno, il rischio di pioggia sul Cruise show in Costa Azzurra sembra aver sortito, come alle precedenti edizioni a Kyoto e Rio, l’effetto desiderato. Che i dirigenti di una casa di moda diano tanto credito a pratiche indigene che fino a pochi anni fa sarebbero state liquidate come superstizioni (sborsando, si vocifera, un onorario a cinque zeri) non stupisce affatto Daniel Pinchbeck (1966), autore di quello che è considerato uno dei migliori testi introduttivi al neosciamanesimo, “Breaking Open the Head” (Broadway Books, 2002). «Viviamo un’epoca di grande riscoperta delle pratiche sciamaniche da parte delle élite di mezzo mondo», dice. «In particolare la cerimonia dell’ayahuasca (o “bevanda dell’anima”, l’infuso allucinogeno preparato dagli sciamani sudamericani, ndr), sempre più in voga tra i ceo delle grandi multinazionali, creativi di successo e celebrities come Sting, Susan Sarandon e Miley Cyrus, ha fatto del Sud America la terra d’elezione per la ricerca dell’illuminazione, come l’India lo era ai tempi dei Beatles». Anche l’arte, con le sue lunghe antenne, ha colto da tempo questo Zeitgeist, al punto che molti critici parlano ormai di un trend sciamanico nell’arte contemporanea. La dice lunga che Christine Macel abbia voluto un “Padiglione degli sciamani” alla sua Biennale di Venezia, nel 2017, con al centro la tradizionale tenda indigena utilizzata per il rituale dell’ayahuasca, opera di Ernesto Neto; significativa anche la scelta della galleria Buchholz di dedicare due grandi mostre retrospettive, una lo scorso inverno a Berlino e una al Kolumba Museum di Colonia (fino al 3/12), al lavoro dell’etnografo cui più va il merito di aver raccontato lo sciamanesimo himalayano in Europa: Michael Oppitz, autore del film di culto “Shamans of the Blind Country” (1981). A cosa si deve questa improvvisa febbre per il trascendentale e per esoterici rituali psichedelici, come non si vedeva dagli anni 60? «Grazie ai progressi della scienza », dice Pinchbeck, «è finalmente venuto meno il clima di demonizzazione che, dal tramonto del sogno hippie, circonda le sostanze psichedeliche: oggi sappiamo che i riti sciamanici costituiscono preziosi e affascinanti strumenti di guarigione e di stimolo della creatività». E non si può che concordare con l’artista canadese Jeremy Shaw (41 anni), noto per aver documentato gli stati estatici indotti dal principio attivo dell’ayahuasca, quando dichiara che «in tempi di crisi, l’uomo torna a cercare Dio». Fornendo una via privilegiata e mistica per riscoprire il legame sacro con la Natura, lo sciamanesimo rappresenta oggi per molti l’antidoto a lungo cercato contro il veleno dell’alienazione dei tempi moderni. Non è un caso che, proprio in qualità di custodi di questa sacralità perduta del rapporto tra l’Uomo e il suo ambiente, sempre più spesso sia la voce degli sciamani a intonare il lamento di dolore della Terra ferita: come quella di Davi Kopenawa in “La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami” (Nottetempo, 2018), dove lo sciamano-attivista, divenuto portavoce dell’Amazzonia brasiliana, denuncia la natura predatoria e autodistruttiva della geopolitica globale. Rincuora, in quest’epoca inquinata acusticamente da slogan imbevuti di paura del diverso, registrare una silenziosa ma inesorabile controtendenza, che vede l’Occidente riabilitare saperi indigeni a lungo considerati espressione di culture primitive e inferiori, tra i quali – dalla medicina all’agricoltura sostenibile – sappiamo celarsi attuali soluzioni per i grandi problemi del nuovo millennio. Epoca strabica, la nostra, nota Adriano Favole in “Vie di fuga. Otto passi per uscire dalla propria cultura” (Utet, 2018): «Per un verso guardiamo alle nostre appartenenze, al nostro noi, coltivando quella che si definisce identità; con l’altro occhio cerchiamo vie di fuga, percorrendo nell’immaginario o nella realtà piste alternative a quelle abituali».

 

Nella foto Charles Fréger, “El dimoni d’Algaida”, Mallorca, Spagna, dalla serie Wilder Mann (2017

 

Vogue Italia, agosto 2018, n.816, pag.50

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